La betulla
Premessa:
Avevo appena scritto circa metà di questo racconto quando un caro amico - il prof. Umberto Bonapace, recentemente e inaspettatamente scomparso - mi disse: "Se me lo consenti, questo racconto te lo completo io, senza cambiare nulla di quanto hai scritto tu". Così, quasi per gioco, ne è uscito un testo a più mani e, a mio avviso, non è facile capire dove termina l'opera dell'uno e comincia quella dell'altro autore. Nel presentare questo brano, voglio ricordare anche l'amico Umberto, al quale mi legava un profondo sentimento di stima e di amicizia.
Gian Cesare Marchesi
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Il piccolo seme di betulla, portato dal vento, si adagiò fra un rinsecchito riccio di castagno e un sasso ricoperto di muschio e rimase così ad osservare il piccolo mondo che gli gravitava attorno. Gli steli di alcuni ciuffi d'erba ondeggiavano nella tiepida brezza del mattino, mentre un giallo tarassaco stava dischiudendo i suoi petali ai primi raggi del sole. Più in alto, si stagliavano sicure nel cielo le fronde di alcuni alberi sui quali svolazzavano chiassose un paio di indaffaratissime gazze.
Una formica curiosa si avvicinò al seme per saggiarne la commestibilità; poi, attratta da un altro più prelibato bocconcino che giaceva poco più avanti, si allontanò frettolosa. Il seme cercò allora di mettersi maggiormente al sicuro, e con leggeri spostamenti riuscì a creare una piccola fenditura nel terreno dove si immerse, trascinando dietro di sè alcune zollette di terra che lo ricoprirono interamente.
Rimase in quella posizione per diversi giorni, inumidito dall'acqua piovana che filtrava dalla superficie del terreno ed assistendo alla crescita di una piccola appendice radicale che piano piano lo ancorava sempre più al luogo in cui era venuto a risiedere.
L'humus estratto dal terreno, l'acqua che filtrava dalla superficie e la stagione propizia, formavano un insieme di condizioni favorevoli alla vita del seme che, giorno dopo giorno, cresceva in salute e vigore, sinché non venne il momento di far uscire allo scoperto un verde germoglio che si trasformò presto in un rametto con due piccole foglie.
Passò ancora del tempo e il rametto s'irrobustì sempre più, diventando un arbusto che ormai poteva permettersi di osservare, dall'alto, i tarassachi, i ciuffi d'erba e quello stesso sasso coperto di muschio che gli aveva offerto riparo e protezione al momento del suo primo arrivo su quel terreno. Qualche pettirosso cominciava a posarsi sulla piccola betulla, becchettando la linfa che qua e là sgorgava dalla tenera corteccia bruna.
Vennero i primi freddi e le poche foglie prima ingiallirono e poi caddero al suolo, confondendosi con quelle degli altri alberi vicini, molto più alti, che si stagliavano nel cielo. Durante l'inverno, cadde copiosa la neve e la giovane pianta s'incurvò tutta, rasentando il suolo con la punta e giacendo così, come sotto una soffice coltre protettiva, per lunghi mesi.
Passarono altre stagioni e l'arbusto crebbe sempre più. La sua corteccia, prima bruna, si ricoprì di una pellicola bianca striata di fenditure nerastre, lungo le quali una colonia di formiche aveva tracciato un percorso che le conduceva sempre più in alto, alla ricerca della linfa che alimentava un'altra colonia di piccoli afidi che, a loro volta, alimentavano le formiche.
Il piccolo seme era dunque ormai diventato un albero, che mirava a raggiungere l'immensità del cielo. Ma ci sarebbe voluto ancora molto tempo per poter gareggiare con i vicini: con quegli abeti e con quei tigli che ormai da tempo si accaparravano con maestosa arroganza i raggi più caldi del sole.
L'albero, comunque, cresceva sempre più in altezza e un giorno i suoi rami più alti giunsero all'altezza di una finestra di una casa vicina. Attraverso i vetri s'intravvedeva l'andirivieni delle persone che vi abitavano, le loro abitudini e i loro mobili. La betulla individuò, seppure a fatica, i resti di un antico castagno, di un tiglio e, soprattutto, di un larice che ricordava, da giovane, di aver visto innalzarsi maestoso nel bosco vicino al prato dove lei stessa era cresciuta. Riconobbe i resti del larice dal profumo che ancora emanavano alcune sue piccole gocce di resina; ormai da tempo rinsecchite e che sembravano lacrime.
Sulle assi di uno di quei mobili erano allineati molti libri e dalle pagine ingiallite di alcuni di questi la betulla, con sua sorpresa, riconobbe i resti, orribilmente manomessi e come mummificati di alcuni suoi simili, che pensò essere suoi antenati, vissuti chissà quando e chissà in quali luoghi, e finiti chissà in qual modo in quei loculi di legno.
Anche nella materia di quei loculi la betulla riconobbe delle affinità con la propria famiglia vegetale: alberi di specie diversa, forse faggi o aceri, che anche erano presenti nel prato e nei boschi vicini. Ma i resti mummificati in essi impilati si rivelavano chiaramente alla betulla, per una sorta di messaggio genetico, della sua stessa specie: betulle come lei, morte forse di morte violenta ad opera dell'uomo e dall'uomo trasformate in macabri oggetti destinati a chissà quale uso.
Un giorno l'uomo della casa trasse uno di quegli oggetti da un loculo, lo pose sul piano di un tavolo e lo aprì, rivelando come i resti della betulla "antenata" fossero stati ridotti in foglietti sottili e regolari, legati insieme su un lato e, per colmo di nefandezza, macchiati di miriadi di segni neri ben allineati e squadrati.
L'uomo, dopo aver fissato a lungo un foglio, lo voltava e si soffermava su quello successivo e così via. La scena aveva qualcosa di disgustoso, perchè sembrava che l'uomo si cibasse in qualche modo di quei resti, pur senza portarli alla bocca.
Ogni tanto alzava quei suoi occhi affamati e restava assorto, come un grosso insetto che riposa immobile su una foglia dopo averne succhiato avidamente la linfa. Ma quale nutrimento poteva ricavare da quei poveri resti, ridotti in sottili lamine e lordati da quelle file di segni neri, simili a formiche immobilizzate da un sortilegio?
La betulla assistè più volte a quel rito oscuro. E mentre l'uomo sembrava ricavarne un sottile e perverso piacere, le pareva di riuscire a cogliere, imprigionati in quei miseri resti, muti messaggi postumi della betulla antenata.
Concentrandosi su quei segnali, vi coglieva antiche sensazioni, così simili a quelle che lei stessa provava nella sua ancor giovane e rigogliosa vita: il fruscio di venti ormai passati fra foglie imputridite da anni o da secoli; l'odore di terre ricche di humus e di erbe, come il suo prato; l'inturgidirsi delle gemme sotto il calore di primavere ormai lontane; il crescere concentrico, anno per anno, del tronco e dei rami; il lieve peso di uccelli che si erano posati tante volte sulle fronde ...
Poi, forse, i rudi colpi di un'ascia d'acciaio; lo schianto di un tronco screziato da pallide antiche cortecce; il sibilo dei rami nella caduta fatale...
La morte, per una betulla come per ogni essere vegetale, dovrebbe essere solo fonte di vita per altre vite, per altri individui della propria specie. Alimentato dalle fibre in decomposizione, l'humus dona a sua volta la vita ad altre forme vegetali: così è sempre stato, e così dovrebbe sempre essere.
Ma essere ridotta a una mummia dalle mani degli uomini e ridotta in fogli macchiati di una nera sostanza chimica, essere sepolta in loculi polverosi e divenire strumento di oscene libidini ai loro occhi sacrileghi, questo pensiero riempiva la betulla di una tristezza profonda, di un oscuro terrore.
Levò al cielo le sue fronde profittando di un soffio di vento e pregò con foga il dio di tutte le forme viventi che a lei fosse risparmiata, se possibile, una simile sorte.